Sei mesi di confusione
Autore:Federico Scotti
Data: 28/08/2025

Si è perso il conto di quanti passi indietro ha compiuto Trump in questi primi soli sei mesi di governo. Su ogni argomento: dazi, Israele-Palestina, Israele-Iran, rapporti e accordi con l’Europa, con la Cina e con Putin, guerra in Ucraina. Forse, l’unica posizione che non ha mai ritrattato è la lotta all’immigrazione, al modo con cui condurla e alla considerazione che nutre per gli immigrati.
Improvvisamente, l’Unione Europea è diventata la principale approfittatrice e parassita del benessere americano, la causa dei suoi problemi economici; non da sola: praticamente tutto il mondo, stando alle parole del presidente degli Stati Uniti, da anni lucra alle spalle dell’America e si adopera per il suo male. E così Trump ha sparato dazi a chiunque: alleati storici, nemici dichiarati, paesi che mai potrebbero rappresentare una anche minima minaccia all’economia statunitense. Il giorno in cui annunciò tali ritorsioni economiche, nei discorsi da lui stesso molte volte pronunciati, doveva essere il Liberation day, il giorno della liberazione, il giorno in cui l’America si sarebbe rialzata. Invece, ancora ad oggi la sua strategia economica rimane un mistero, i dazi sono stati ritrattati infinite volte e, nonostante la versione ufficiale sia che proprio questi continui passi indietro hanno permesso di stringere accordi con diversi Stati (seppure con l’Europa e la Cina, per citare solo due tra gli esponenti commerciali più importanti, si è ancora molto lontani dal raggiungimento di un patto), ciò ha portato i mercati ad entrare in crisi, senza dimenticare che Trump è stato criticato dai suoi stessi collaboratori e da economisti per le sue decisioni.
Nella politica estera ha fatto, se possibile, anche peggio. Lui doveva essere l’uomo che in 24 ore dall’insediamento poneva fine alla guerra in Ucraina, alzando la cornetta e chiamando il suo buon vecchio amico Putin, e risolveva (in questo caso le tempistiche non erano state precisate) il conflitto nella striscia di Gaza deportando i palestinesi e creando un lussuoso villaggio turistico. Sono passati sei mesi e la situazione è solo peggiorata.
Innanzitutto, il suo buon vecchio amico Putin non è poi così tanto amico e accondiscendente; ha provato ad addolcire lo zar con complimenti, elogi, sostenendo la propaganda russa in ogni modo, togliendo armi all’Ucraina, umiliando Zelensky e accusandolo di essere in carica in maniera non democratica (mentre Putin invece sembrerebbe incarnare la democrazia stessa). In fondo quello che Trump voleva erano le terre rare ucraine, però la maggior parte sono nei territori conquistati dai Russi: evidentemente credeva che chiedendolo gentilmente il presidente russo avrebbe rinunciato al suo disegno imperialista. Invece è successo l’esatto opposto, un rifiuto dopo l’altro, che ha portato Trump a elogiare Putin nei giorni pari, in quelli dispari a inveire ferocemente contro di lui.
In Medio Oriente, ormai la pace e la stabilità dell’area sembrano le uniche cose irrealizzabili e il presidente americano sostenendo Netanyahu in ogni sua follia si è reso complice della tragica condizione sociale e umanitaria a cui si è giunti. Non è continuando a bombardare tende di sfollati e macerie di ciò che una volta erano città, palazzi, abitazioni che la minaccia terroristica verrà risolta. Le tregue da lui proposte sono fallite una dopo l’altra, una volta per colpa di Israele, quella dopo per colpa di Hamas, e così di nuovo.
In campagna elettorale Trump aveva abbracciato totalmente la politica isolazionista: però non si è affatto ritirato da nessun conflitto (in Ucraina dipende dai giorni), anzi è stato protagonista di nuovi incendi bellici. Se davvero voleva togliere l’America dallo scenario politico, ha evidentemente sbagliato qualcosa; se, invece, non vuole diminuire l’influenza americana nel mondo, sta facendo, spesso, l’opposto di quello che dovrebbe: allontana ed esaspera gli alleati, è fin troppo accomodante con chi rappresenta davvero una minaccia per gli Stati Uniti.
In tutti questi cambi di opinioni, discorsi in cui contraddice il sé stesso del giorno prima, appare tutt’altro che sicuro, forte e determinante: sembra indeciso, debole e ininfluente, non certo perché l’America ha perso la sua rilevanza geopolitica (la missione lampo in Iran lo ha dimostrato), ma l’apparente onnipotenza con cui si ricopre è solo vanità: in questi mesi, ha cercato di mostrarsi capace di risolvere ogni cosa e invincibile e invece non ha concluso nulla; ha dovuto fare marcia indietro sui dazi, Putin non lo considera, le guerre proseguono e ne incominciano di nuove. Ogni giorno, spesso più volte al giorno, pubblica messaggi sui social, leggendo i quali sembrerebbe che nel mondo siano state risolte tutte le crisi globali, ma sono solo enormi esagerazioni, a volte persino menzogne. Trump sta cambiando la politica, sta sostituendo al dibattito, alla ragionevolezza e all’interesse collettivo gli insulti e il divieto di esprimersi (il vicepresidente Vance qualche mese fa in viaggio in Europa accusava l’Unione Europea di non essere democratica, di sopprimere la libertà di parola; però non è in Europa che Harvard e molte altre università hanno dovuto subire minacce e veti – a riguardo un precedente articolo di Pietro Rea, Trump e l’università), la prevaricazione del più forte (lo stato di diritto, la sovranità nazionale, l’uguaglianza degli esseri umani dimenticati da Putin e da Netanyahu che Trump non ha mai contestato sono precedenti terribili per il futuro) e gli interessi personali di pochi.