(R)ESTATE IN CELLA
Autore:Pietro Rea
Data: 28/08/2025

“[Nel] metodo conoscitivo da soggetto a soggetto (…), chi conosce non può avvicinarsi ad esso con un passepartout universale, con un metodo conoscitivo sempre identico, adeguato a tutti gli oggetti che si trovino nel raggio di azione dell’unico soggetto, rappresentato da colui che indaga. Il soggetto da conoscere detta lui stesso il metodo della propria conoscenza. Al soggetto che conosce non resta che ascoltare e seguire. Tendere l’orecchio. Perché solo così si può “essere-con”, cioè entrare in comunione con ciò che si conosce. Solo ciò che viene conosciuto può indicare la strada verso la propria essenza, nelle sue recondite profondità.”
Così spiega Tat’jana Kasatkina, filosofa moscovita, durante una sua intervista di qualche anno fa.
Perché inizio un articoletto sul carcere con questa frase?
Perché essa, indirettamente, esplicita una esperienza umana e sociale che ci accomuna tutti quanti: se non ne facciamo direttamente esperienza non conosceremo mai la cosa in questione, ma continueremo inevitabilmente a ragionare sui luoghi comuni, sulle opinioni e sul sentimento proprio e comune.
Questo perché l’Essere Umano, imparando a ragionare attraverso i concetti, nel momento in cui non possiede la piena conoscenza di un soggetto, necessita di un surrogato, che spesso è dettato dalla società o dal circolo sociale in cui è inserito.
Ad esempio, io non ho mai visitato Scampia, per questo motivo le immagini che costruisco nella mia testa sono legate a tanti pareri, tante opinioni, o tante esperienze che mi sono state consegnate a proposito di essa nell’arco della mia vita.
Io non posso affermare di conoscere Scampia, seppur mi sembra di sapere tutto di quel posto.
Fatta questa premessa un po’ filosofica -il lettore vorrà perdonarmi, ma essendo in vacanza mi voglio divertire un po’-, voglio parlare a proposito di una situazione molto complicata che sono le carceri.
Ma questa premessa non è a sé stante, perché più si parla di “carcere”, più quanto sottolinea la Kasatkina si dimostra vero: “Metteteli dentro e buttate la chiave”, “Non hanno mai fatto niente di buono e non potranno mai farlo”, “Se uno fa il bene non può finire lì” sono tante frasi che dimostrano una ignoranza di base del carcere, proprio a partire da fatto che nessuno ne fa, fortunatamente, esperienza e che nessuno si interessa a capire cosa ci sta dietro.
Non sono frasi occasionali, non le trovi scritte sui muri, le abbiamo tutte sulla punta della lingua pronte per essere sfoderate al momento giusto.
Anzitutto voglio sfatare un mito: anche le persone per bene possono finire in carcere.
Un detenuto su dieci non è infatti un detenuto, ma sotto un punto di vista giuridico è un libero cittadino innocente in attesa di giudizio.
Nonostante questo vengono comunque portati “dentro” e vengono trattati al pari dei detenuti definitivi.
Cosa significa questo? Che se per sbaglio parte una denuncia fasulla, o errata, e vi devono processare, innocenti o colpevoli che siate, passate lo stesso un numero indefinito di mesi in carcere.
Sul sito del ministero della giustizia potete trovare tutti i dati che dimostrano quanto sto dicendo.
Dopodiché ci sarebbe una parentesi molto ampia da aprire su quanto sta succedendo adesso, basti pensare ai suicidi in aumento esponenziale, al sovraffollamento nella maggior parte degli istituti (Se ci sono 51 mila posti contati, i detenuti attuali sono quasi 10 mila in più), al caldo cocente estivo che non trova rimedio se non in un unico ventilatore per cella, il numero crescente di suicidi delle guardie penitenziarie (numero che viene spesso evitato) che devono essere costantemente sottoposte a vedere e fare azioni tremende, ai detenuti ai quali vengono negati una serie di diritti umani di base (come il lavoro, una istruzione, il diritto di poter stare con i propri cari e di poter essere trattati non come delle bestie) e una lunghissima altra serie di eventi che passano in sordina, che non ho il tempo di approfondire nella loro interezza.
(Magari pubblicherò un po’ di articoli a riguardo per affrontare bene ogni tema piccolo o grande che sia)
Insomma, il carcere oggi non funge come centro educativo, ma come centro di contenimento.
Sono poche le carceri, infatti, che hanno una recidività inferiore al 10%, dove recidività sta per il ritorno di un ex detenuto in cella, a causa di un cattivo comportamento al suo rilascio.
Questo perché oggi l’obbiettivo non è rieducare un detenuto, quanto a tenerlo lì dentro il più tempo possibile sperando che impari la lezione e che non faccia danni dopo il suo rilascio.
Si distinguono infatti tutte quelle strutture che a loro interno hanno una serie di progetti che mirano a dare dignità a un detenuto durante e dopo la sua prigionia.
Anche perché, come raccontano alcune testimonianze, il peggio inizia al ritorno nella “normalità”, dove per tutti sei un ex detenuto, anche sei innocente.
La premessa e lo svolgimento non sono due cose a se stanti, infatti il mio articolo non ha come obbiettivo quello di raccontare ciò che avviene dentro (anche perché ne so ben poco), ma di far capire al lettore che non bisogna fermarsi ai luoghi comuni in una questione così complicata.
Esistono una serie di articoli, associazioni e testimonianze (anche online) che vale la pena guardare e ascoltare, perché, fortunatamente, nessuno di noi ha fatto quella esperienza e non sa cosa realmente accade lì.
È naturale avere paura di quel genere di persone, è normale concepire il carcere come qualcosa di lontano e destinato a “chi se lo merita”, ma non è giusto fermarsi a questi impulsi e ritenere di aver capito già tutto della questione, senza pensare che ci possa essere altro oltre al nostro pensiero.
Vorrei finire con una frase ad effetto, ma mi sembra più efficace riprendere una affermazione di Kasatkina con cui ho cominciato.
“(…) Al soggetto che conosce non resta che ascoltare e seguire. Tendere l’orecchio. Perché solo così si può “essere-con”, cioè entrare in comunione con ciò che si conosce. Solo ciò che viene conosciuto può indicare la strada verso la propria essenza, nelle sue recondite profondità.”