Nulla di nuovo sul fronte democratico
Autore:Federico Scotti
Data: 28/08/2025

Se fossero dei marinai nell’oceano, i repubblicani direbbero: «nulla all’orizzonte»; se fossero su un campo di battaglia: «tutto tace»; se fossero in campagna: «non si muove una foglia». In poche parole: i democratici non si vedono e non si sentono in nessun luogo.
Dall’insediamento di Donald Trump, il 20 gennaio scorso, il partito democratico sembra scomparso. Rare occasioni affermano il contrario: un isolato e poco energico messaggio di Kamala Harris due giorni fa, per “scusarsi” del suo eclissamento e per criticare Trump; il giorno seguente, la prima apparizione di Biden, dopo la fine del suo mandato, a un congresso di attivisti a Chicago, in cui ha attaccato il presedente di aver distrutto in tre mesi tutti i traguardi che la sua amministrazione aveva conseguito; qualche volta, audaci deputati e senatori fanno sentire una flebile voce di protesta.
In più, sembrano svaniti anche gli elettori democratici. Nel primo governo Trump, le manifestazioni, le proteste le folle oceaniche di contestatori erano numerosissime. Queste, ora, nonostante le riforme introdotte abbiamo delle conseguenze più impattanti sul tessuto sociale, non ci sono più.
La causa non può che ritrovarsi in quanto detto qualche riga sopra: i capi del partito sono in crisi. Sembra che la sconfitta di novembre li abbia privati delle energie, delle speranze rimaste e, adesso, non siano più capaci di reagire, di opporsi con programmi seri in grado di parlare al popolo americano (una delle cause, da molti riconosciuta, che hanno portato alla seconda vittoria di Trump è proprio la distanza che gli elettori, soprattutto la fascia dei lavoratori più poveri, sui quali molto hanno puntato i repubblicani, percepivano tra loro e i leader democratici).
Tuttavia, non è tutto il partito democratico ad essere scomparso. Gli esponenti più radicali come il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez stanno girando il paese, tenendo comizi in molti Stati, alcuni anche fortemente trumpiani. Ma non solo: sembra che la sinistra progressista si stia spostando su posizioni ancora più estreme in opposizione chiara a Trump. Di fatto, stanno cercando di attuare un fenomeno simile a quello registrato in campo conservatore: Maga (Make America Great Again) ha soffocato l’anima moderata del partito. Forse, stanno seguendo una logica del tipo: se Trump ha vinto perché è diventato ancora più estremista, possiamo fare così anche noi.
Ma gli estremismi non sono mai giusti, soprattutto mai rispettosi della democrazia: perché hanno delle posizioni troppo nette e chiuse; non sono aperti al dialogo, all’altro al diverso. Anzi, molto spesso li contraddistingue proprio la violenza, l’aggressività, l’insulto.
Come negli ultimi mesi è la sinistra radicale a prendere terreno, così nei mesi precedenti è stato il tempo della destra trumpiana che ha zittito completamente i repubblicani moderati.
È questa fetta della realtà politica che non si vede più: i moderati sia democratici sia conservatori. Ma non è affatto un bene; né qualcosa di ininfluente. Se si dovesse affermare con sempre più forza l’estremismo, il problema non sarebbe Trump, ma tutti i Trump che verrebbero dopo di lui. Creerebbero una politica sarebbe sempre più divisiva, più aggressiva e con meno rispetto di chi possiede un’opinione diversa. Questo indipendentemente dal partito di appartenenza. Tra l’attuale governo americano e la sinistra radicale e promotrice della cultura woke non c’è molta distanza; ciò che cambia soprattutto è il bersaglio contro cui si scagliano: gli uni contro gli immigrati, gli altri contro i “bianchi”.
Questa spirale cambierà? Qualcuno avrà la fermezza e l’abilità per conseguire una via di mediazione? Oppure, prevarrà il personaggio dalla voce grossa, dall’insulto facile e dai modi discriminatori?