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Israele o Palestina

Autore:Federico Scotti

Data: 28/08/2025

Israele o Palestina
Uno dei conflitti più rilevanti degli ultimi anni è lo scontro tra Israele e Palestina, ma è, forse, anche quello di cui meno si conoscono i motivi scatenanti. Molti giudizi sono stati espressi a riguardo, diverse posizioni sostenute con fermezza, eppure, spesso, l’impressione è che si omettano – volontariamente o inconsciamente – dei frammenti di storia fondamentali. Un retroscena di scontri, di credenze, di violenza molto antico.  Tra le fonti più antiche che parlano del popolo ebraico, la Bibbia ricopre un ruolo fondamentale. Scritta per raccontare il rapporto tra Dio e il popolo d’Israele e per insegnare la Legge, la Scrittura contiene numerosi riferimenti ad eventi storici.  Agli albori della storia, nel libro della Genesi, si racconta della figura di Abramo che Dio chiama a farsi strumento del suo volere, promettendogli in cambio una discendenza più numerosa delle stelle del cielo (Ge 15, 5) e una terra dove il suo popolo potrà vivere, un paese chiamato Canaan (Ge 12, 6-7), che corrisponde all’attuale territorio formato da Libano, Israele, Palestina, parte della Siria e della Giordania. A seguito di una terribile carestia gli ebrei sono costretti a fuggire in Egitto dove vengono accolti da Giuseppe, figlio di Giacobbe, nipote di Abramo, che era il più fedele e stimato servitore del faraone (Ge 39-47). In Egitto, il popolo di Israele cresce molto di numero, finché un secondo faraone, anni dopo, per paura di una rivolta, rende schiavi tutti gli ebrei. Dio allora chiama Mosè e gli ordina di recarsi in Egitto per liberare il suo popolo e condurlo in una terra di delizie, dove «scorrono latte e miele» (Es 3, 7-10) e che sarà la terra destinata in eredità a tutti i suoi discendenti. Un territorio stabilito secondo i confini della regione di Canaan (Nu 34, 2-12), ossia la terra promessa ad Abramo. Mosè libera gli israeliti e dopo un complicato viaggio nel deserto giungono finalmente al luogo promesso da Dio. Una terra però che è abitata da altri popoli, contro i quali gli ebrei combattono duri scontri, per lunghi anni, che portarono alla loro supremazia nella regione.  Nel I secolo, i romani conquistarono il territorio della Palestina, trasformandola in una provincia della Repubblica. Tuttavia, i rapporti con gli ebrei furono molto complicati, soprattutto durante l’età imperiale. Ci furono numerose e ricorrenti rivolte che culminarono, nel 70 d.C., con la conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio da parte del generale Vespasiano. Da questo evento ebbe inizio la diaspora del popolo di Israele, l’abbandono della terra promessa e la dispersione in giro per il mondo alla ricerca di una nuova casa.  Seguirono secoli complessi per gli ebrei, sparsi per le città di tutta Europa, spesso isolati dal resto delle comunità cittadine perché guardati con malizia e sospetto. Essi si dedicarono a varie attività e nel complesso si arricchirono molto, specie grazie al lavoro di banchieri, col quale prestavano denaro a interesse. Grazie a ciò, accumularono molti beni, tanto più rispetto ad altri loro concittadini che, essendo di fede cristiana erano sottomessi all’autorità ecclesiastica che aveva proibito la pratica del prestito di denaro per scopi di lucro (gli interessi su un certo prestito maturavano in funzione del tempo, ma per la religione cristiana il tempo è di Dio; pertanto, è sacrilego per un uomo lucrare su un bene del Signore). La grande ricchezza di cui disponevano fu però causa di odio e invidia le quali in diverse occasioni causarono scoppi di violenza e repressioni durante il Medioevo, ma anche nel corso dei secoli successivi fino al XIX secolo. Per fare due esempi, durante le crociate, tra i secoli XI e XIII, nelle spedizioni per giungere in Terrasanta, frequenti furono gli atti violenti nelle città balcaniche contro cittadini di origine ebraica: incendi delle case, distruzione dei negozi, furti dei beni, omicidi. Nell’Ottocento, in Russia meridionale e in Ucraina, con motivi pretestuosi, si verificarono molti “pogrom” da parte dei cittadini locali, un termine russo che significa ‘distruggere con violenza’, con specifica connotazione a questi episodi di violenza contro gli ebrei.  L’inasprirsi di un sentimento antisemita portò, nei primi anni del Novecento, alla nascita del movimento sionista che si adoperava per il ritorno degli ebrei in Palestina, in una terra che potesse essere effettivamente loro. L’iniziativa trovò il sostegno della gran Bretagna che, alla fine del primo conflitto mondiale, aveva ottenuto il mandato di amministrare la Palestina, sottraendo il territorio all’impero Ottomano. La grande resistenza a cui questo progetto andava in contro era la presenza di altri popoli in quello stesso territorio, che da secoli abitavano lì.  Pochi decenni dopo, però, il folle e disumano disegno del regime hitleriano segnò il momento peggiore di tutti i secoli per il popolo di Israele. Si stima che i nazisti abbiano causato la morte di almeno sei milioni di ebrei.Con la fine della Seconda guerra mondiale, il progetto inglese sostenuto dal resto degli Alleati trovò concretizzazione: nel 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la proposta di dividere il territorio in due zone, una sotto il controllo di Israele e l’altra nelle mani dei Palestinesi, con l’esclusione di Gerusalemme che era affidata al controllo dell’ONU, con l’obiettivo di costituire l’esistenza di due Stati separati. I popoli arabi rifiutarono il piano e all’indomani della proclamazione d’indipendenza d’Israele, il 15 maggio 1948, la coalizione formata da Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invase il neo Stato ebraico. Quest’ultimo, nonostante l’esercito inesperto, ma soprattutto grazie all’aiuto militare occidentale, riuscì a difendersi e a conquistare anche nuovi territori. A questo conflitto negli anni successivi seguirono altri tre conflitti, le cosiddette guerre arabo-israeliane, l’ultima nel 1973.  La più importante per gli eventi successivi è la terza, la “guerra dei sei giorni”, scoppiata nel 1967, perché ad essa seguì una dichiarazione dell’ONU che sancì la divisione della regione in due zone di influenza. I Palestinesi rimanevano in possesso della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Un ulteriore tassello diplomatico fu aggiunto nel 1993 con gli accordi di Oslo, poi rivisti nel 1995, stipulati tra Stato di Israele e OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che aveva conseguito nel 1988 la costituzione di uno Stato di Palestina, riconosciuto da oltre 90 paesi, pochi di questi occidentali) che prevedevano la riconferma dei confini territoriali proposti dalla dichiarazione del 67, l’abbandono dei territori palestinesi occupati da Israele e la frammentazione della Cisgiordania in tre zone di influenza: una zona A, sotto l’amministrazione piena dei palestinesi; una zona B, con il controllo spartito tra Palestina e Israele; una zona C, sotto il dominio di Tel Aviv. Bisogna evidenziare che dal 1948 fino ai giorni nostri, la parte diplomatica è stata solo una delle realtà in gioco e, purtroppo, spesso è risultata impotente e inconcludente. Da una parte i coloni israeliani più radicali non hanno mai smesso di espandere i propri possedimenti ben oltre i confini internazionali e anche dopo gli accordi del 95, perpetrando violenze contro gli abitanti locali. Dall’altra i fondamentalisti palestinesi hanno risposto con attacchi terroristici. Nei primi anni duemila Israele ha costruito un lungo muro per dividere le due regioni e, anche negli anni successivi, ha perseguito una linea molto dura nei confronti dei palestinesi.  La grave condizione di vita degli abitanti della Palestina ha portato alla formazione di gruppi terroristici nella Striscia di Gaza, ma anche in altre nazioni limitrofe a Israele. L’occidente accusa l’Iran di essere l’artefice e il finanziatore di questi movimenti violenti e di usarli per estendere il suo controllo sull’intera regione. Da questa situazione precaria si è giunti al tragico 7 ottobre 2023, quando Hamas con un’incursione improvvisa ha massacrato più di milleduecento persone e ne ha catturate circa duecentocinquanta. Ad oggi la risposta di Israele non è ancora terminata, definendo una guerra che ha causato la morte di decine di migliaia di persone, molte delle quali civili, e che non sembra destinata a finire a breve.  Ma, il problema più grave è che il termine delle ostilità in corso non sarà affatto sufficiente a garantire la pace tra i due popoli. La rabbia reciproca è troppo grande per scomparire con un trattato. La coesistenza di due Stati distinti è per entrambi una condizione imposta che sta stretta. Però non è da dimenticare che la colpa di quello che è successo e che sta succedendo, da ambedue le parti, non è del popolo intero, ma della parte al comando, dei sostenitori più estremisti; c’è sicuramente qualcuno che non è d’accordo, che desidererebbe la pace, eppure deve subire e soffrire. Questo articolo (per quanto lungo) è un brevissimo riassunto di una storia infinita costellata di moltissimi eventi determinanti. Molto altro si potrebbe dire, sulle responsabilità degli israeliani e dei palestinesi, ma anche di tante altre nazioni, sulla soluzione migliore tra due Stati separati o un unico Stato, e altro.  Quello che ho voluto sottolineare è che l’odio tra i due popoli non deriva solo dall’attacco del 7 ottobre, né dalla risposta di Israele, che ad oggi è diventata enormemente sproporzionata, ma possiede radici molto più profonde e antiche e dipende altresì dalla ferrea volontà di risiedere in quella terra per motivi religiosi. Una storia di conflitti, di atroci dolori sia per gli uni sia per gli altri, che ha allontanato sempre più la possibilità di una pace, la quale è una tendenza che non sta cambiando affatto.

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