Giocare alla guerra
Autore:Federico Scotti
Data: 6 novembre 2025

«Assumi il comando di una delle nazioni più potenti del mondo e affronta l'imminente minaccia della Terza Guerra Mondiale. Conquista risorse, stringi alleanze e rafforza la tua economia. Ricerca armi di distruzione di massa devastanti e rischia tutto per diventare la superpotenza dominante del pianeta. Alleanze intelligenti o espansione spietata, guerra furtiva o devastazione nucleare? La scelta è tua».
Sono curioso di sapere a cosa state pensando ora, di cosa credete che sia questo estratto.
Esso è la descrizione del videogioco Supremacy: World War 3 nella versione per cellulare, che immerge i giocatori in uno scenario di guerra al tempo del XXI secolo. Si tratta del terzo capitolo di una serie videoludica incentrata sulla simulazione di conflitti militari globali. I due precedenti rievocano come scenario di combattimento rispettivamente la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Esistono tante altre applicazioni di strategia bellica: navigando nelle piattaforme di gioco virtuali se ne incontrano parecchi. E altrettanto popolari sono i giochi da tavolo, il più celebre dei quali è sicuramente Risiko. Si tratta di un giocare a simulare la guerra e in questo, apparentemente, non c’è nulla di diverso con l’esempio sopra riportato.
Però, in Risiko (quello fisico), si è calati in un contesto di evidente finzione o immaginazione, di distanza dalla realtà: per le modalità con cui avvengono i combattimenti, ossia l’uso di dadi, la lotta attraverso piccoli carrarmati di plastica stilizzati, l’importante rilevanza della fortuna, ma soprattutto – e parlo da giocatore – perché lo scopo primario è quello di provare divertimento in compagnia attraverso il gioco, è un’occasione per passare del tempo con amici, in allegria che inizia con la preparazione della plancia del mondo e termina con la vittoria di uno dei giocatori. Una “campagna bellica” che viene ricordata nei giorni successivi non tanto per la conquista di uno degli staterelli ma per quanta fortuna ha avuto quell’amico nel tirare i dadi, nel pescare le carte o per un’alleanza stretta tra due giocatori, ecc. Nessuno direbbe mai, dopo una partita a Risiko, che ha simulato una vera guerra.
Quando si vuole riferirsi a un politico bellicoso con tono critico spesso si dice che «gioca a Risiko», ma mai si dice che un giocatore di Risiko si comporta come quell’ipotetico presidente bellicoso.
Diverso è il funzionamento dei videogame di guerra. Si deve senz’altro distinguere tra quelli in cui si gioca con qualcuno che si conosce, e di conseguenza si tratta della medesima casistica di Risiko, e quelli in cui si partecipa da soli, nei quali viene meno il fattore amicale e si inserisce, invece, una logica incentrata sulla strategia e sulla conquista perché è il giocare che dà adrenalina ed emozione. Tuttavia, in entrambi gli scenari, i protagonisti sono giocatori che per davvero si comportano come un equivalente reale: emulano le gesta di comandanti esistiti e ripercorrono parti di storia all’interno delle quali simulano battaglie, conquiste, distruzioni.
Supremacy: World War 3, come altri dello stesso genere (World War 3; Conflict of Nations: WW3), si pone però su un terzo livello. Non è più la simulazione di qualcosa di accaduto nel passato o di un mondo irrealistico, ma l’estremizzazione di una realtà presente. Una condizione di vita sottoposta al timore per una degenerazione globale dei rapporti internazionali e all’apparire sempre più concreto di una crisi dal sentore apocalittico, a fianco della quale c’è chi propone lo stesso scenario come un gioco, come un divertimento, come l’occasione per provare a fare una guerra, che essendo relegata nello schermo non ha ricadute dirette sulla realtà. Anche se, non è forse essa responsabile di importanti cambiamenti nel modo di guardare al mondo e nella concezione tra finzione e verità?
Ed è profondamente diverso da Risiko o i videogiochi sulla Prima e Seconda guerra mondiale perché il giocatore non sta più simulando la guerra ma sta facendo la guerra; sta creando qualcosa di verosimile e mai avvenuto che, tra l’altro, tutti, anche i giocatori stessi, sperano non accada mai.
Analizzando la descrizione di inizio articolo ed estrapolandola dal fine promozionale con cui è stata scritta, ciò che rimane di positivo è assai poco. Una nuova guerra mondiale è data per scontato, come un fatto «imminente»; pertanto, è necessario che ogni nazione si rafforzi su tutti i fronti e lo faccia in autonomia: certo può stringere alleanze, ma l’obiettivo è quello di «diventare la superpotenza dominante del pianeta». In quest’ottica è imperante promuovere la ricerca di «armi di distruzione di massa». Ma soprattutto, l’andamento della guerra, la decisione di quali attacchi eseguire e quali città distruggere, se premere il «pulsante di lancio nucleare» è una scelta «tua».
Una, se non probabilmente la peggiore, catastrofe a cui può incorrere il nostro mondo, la «devastazione nucleare», è qui sbandierata come un atto di forza, legittimo e naturale come premere il tasto sul telefono per scattare una foto; forse, per il contesto in cui è inserito, persino come un gesto innocuo.
Qualcuno potrebbe ribattere che rimane sempre e soltanto un gioco. Potrebbe darsi. Ma questi videogiochi, come quello in questione, hanno la peculiarità di trasformare i giocatori in artefici della guerra edulcorando quest’ultima fino a renderla un’eroica occasione in cui “dimostrare” il proprio valore.
C’è una similitudine tra eroismo ludico in guerra e realtà contemporanea. Si tratta di un’introduzione recente da parte dell’esercito ucraino e che sembrerebbe i russi si apprestino a copiare. Può facilmente essere interpretata come un’evoluzione necessaria per far fronte al conflitto oppure come una degenerante dissoluzione «tra gioco virtuale e realtà». Il New York Times parla di «gamification della guerra», cioè l’applicazione di meccanismi ludici in altri contesti, in questo caso bellici: «In un gioco del mondo reale gestito dal governo ucraino, i reggimenti vengono ricompensati con punti per gli attacchi riusciti. Ferire un soldato russo? Otto punti. Ucciderne uno? Ne valgono 12. Un manovratore di droni russo vale di più: 15 punti per ferirlo e 25 punti per ucciderlo. Catturare un soldato russo vivo con l'aiuto di un drone è il jackpot: 120 punti» (traduzione ricavata dal Corriere della Sera).
Questo sistema a punti, controllato da un ufficio a Kiev che verifica tramite video registrati dai soldati l’abbattimento dei nemici, consente alle squadre di acquistare nuovi equipaggiamenti per droni di fabbricazione ucraina attraverso un negozio.
La testata americana esprime, però, alcune perplessità sulle ripercussioni negative nell’estensione della logica dei videogiochi a combattimenti reali, che avvengono sempre più tramite droni, i quali consentono ai soldati «di uccidere con un semplice clic, lontano dal campo di battaglia». Si facilita così la morte e la si rende, se possibile, ancora più disumana.
Di contro, il comandante di una di queste squadre, Yuriy Fedorenko, afferma, come si legge in un articolo del Messaggero, che la nuova strategia bellica non corrisponde a una gamification della guerra perché ha come primario obiettivo quello di fermare i russi; la dinamica videoludica sta soltanto in secondo piano.
Sono curioso di sapere a cosa state pensando ora, di cosa credete che sia questo estratto.
Esso è la descrizione del videogioco Supremacy: World War 3 nella versione per cellulare, che immerge i giocatori in uno scenario di guerra al tempo del XXI secolo. Si tratta del terzo capitolo di una serie videoludica incentrata sulla simulazione di conflitti militari globali. I due precedenti rievocano come scenario di combattimento rispettivamente la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Esistono tante altre applicazioni di strategia bellica: navigando nelle piattaforme di gioco virtuali se ne incontrano parecchi. E altrettanto popolari sono i giochi da tavolo, il più celebre dei quali è sicuramente Risiko. Si tratta di un giocare a simulare la guerra e in questo, apparentemente, non c’è nulla di diverso con l’esempio sopra riportato.
Però, in Risiko (quello fisico), si è calati in un contesto di evidente finzione o immaginazione, di distanza dalla realtà: per le modalità con cui avvengono i combattimenti, ossia l’uso di dadi, la lotta attraverso piccoli carrarmati di plastica stilizzati, l’importante rilevanza della fortuna, ma soprattutto – e parlo da giocatore – perché lo scopo primario è quello di provare divertimento in compagnia attraverso il gioco, è un’occasione per passare del tempo con amici, in allegria che inizia con la preparazione della plancia del mondo e termina con la vittoria di uno dei giocatori. Una “campagna bellica” che viene ricordata nei giorni successivi non tanto per la conquista di uno degli staterelli ma per quanta fortuna ha avuto quell’amico nel tirare i dadi, nel pescare le carte o per un’alleanza stretta tra due giocatori, ecc. Nessuno direbbe mai, dopo una partita a Risiko, che ha simulato una vera guerra.
Quando si vuole riferirsi a un politico bellicoso con tono critico spesso si dice che «gioca a Risiko», ma mai si dice che un giocatore di Risiko si comporta come quell’ipotetico presidente bellicoso.
Diverso è il funzionamento dei videogame di guerra. Si deve senz’altro distinguere tra quelli in cui si gioca con qualcuno che si conosce, e di conseguenza si tratta della medesima casistica di Risiko, e quelli in cui si partecipa da soli, nei quali viene meno il fattore amicale e si inserisce, invece, una logica incentrata sulla strategia e sulla conquista perché è il giocare che dà adrenalina ed emozione. Tuttavia, in entrambi gli scenari, i protagonisti sono giocatori che per davvero si comportano come un equivalente reale: emulano le gesta di comandanti esistiti e ripercorrono parti di storia all’interno delle quali simulano battaglie, conquiste, distruzioni.
Supremacy: World War 3, come altri dello stesso genere (World War 3; Conflict of Nations: WW3), si pone però su un terzo livello. Non è più la simulazione di qualcosa di accaduto nel passato o di un mondo irrealistico, ma l’estremizzazione di una realtà presente. Una condizione di vita sottoposta al timore per una degenerazione globale dei rapporti internazionali e all’apparire sempre più concreto di una crisi dal sentore apocalittico, a fianco della quale c’è chi propone lo stesso scenario come un gioco, come un divertimento, come l’occasione per provare a fare una guerra, che essendo relegata nello schermo non ha ricadute dirette sulla realtà. Anche se, non è forse essa responsabile di importanti cambiamenti nel modo di guardare al mondo e nella concezione tra finzione e verità?
Ed è profondamente diverso da Risiko o i videogiochi sulla Prima e Seconda guerra mondiale perché il giocatore non sta più simulando la guerra ma sta facendo la guerra; sta creando qualcosa di verosimile e mai avvenuto che, tra l’altro, tutti, anche i giocatori stessi, sperano non accada mai.
Analizzando la descrizione di inizio articolo ed estrapolandola dal fine promozionale con cui è stata scritta, ciò che rimane di positivo è assai poco. Una nuova guerra mondiale è data per scontato, come un fatto «imminente»; pertanto, è necessario che ogni nazione si rafforzi su tutti i fronti e lo faccia in autonomia: certo può stringere alleanze, ma l’obiettivo è quello di «diventare la superpotenza dominante del pianeta». In quest’ottica è imperante promuovere la ricerca di «armi di distruzione di massa». Ma soprattutto, l’andamento della guerra, la decisione di quali attacchi eseguire e quali città distruggere, se premere il «pulsante di lancio nucleare» è una scelta «tua».
Una, se non probabilmente la peggiore, catastrofe a cui può incorrere il nostro mondo, la «devastazione nucleare», è qui sbandierata come un atto di forza, legittimo e naturale come premere il tasto sul telefono per scattare una foto; forse, per il contesto in cui è inserito, persino come un gesto innocuo.
Qualcuno potrebbe ribattere che rimane sempre e soltanto un gioco. Potrebbe darsi. Ma questi videogiochi, come quello in questione, hanno la peculiarità di trasformare i giocatori in artefici della guerra edulcorando quest’ultima fino a renderla un’eroica occasione in cui “dimostrare” il proprio valore.
C’è una similitudine tra eroismo ludico in guerra e realtà contemporanea. Si tratta di un’introduzione recente da parte dell’esercito ucraino e che sembrerebbe i russi si apprestino a copiare. Può facilmente essere interpretata come un’evoluzione necessaria per far fronte al conflitto oppure come una degenerante dissoluzione «tra gioco virtuale e realtà». Il New York Times parla di «gamification della guerra», cioè l’applicazione di meccanismi ludici in altri contesti, in questo caso bellici: «In un gioco del mondo reale gestito dal governo ucraino, i reggimenti vengono ricompensati con punti per gli attacchi riusciti. Ferire un soldato russo? Otto punti. Ucciderne uno? Ne valgono 12. Un manovratore di droni russo vale di più: 15 punti per ferirlo e 25 punti per ucciderlo. Catturare un soldato russo vivo con l'aiuto di un drone è il jackpot: 120 punti» (traduzione ricavata dal Corriere della Sera).
Questo sistema a punti, controllato da un ufficio a Kiev che verifica tramite video registrati dai soldati l’abbattimento dei nemici, consente alle squadre di acquistare nuovi equipaggiamenti per droni di fabbricazione ucraina attraverso un negozio.
La testata americana esprime, però, alcune perplessità sulle ripercussioni negative nell’estensione della logica dei videogiochi a combattimenti reali, che avvengono sempre più tramite droni, i quali consentono ai soldati «di uccidere con un semplice clic, lontano dal campo di battaglia». Si facilita così la morte e la si rende, se possibile, ancora più disumana.
Di contro, il comandante di una di queste squadre, Yuriy Fedorenko, afferma, come si legge in un articolo del Messaggero, che la nuova strategia bellica non corrisponde a una gamification della guerra perché ha come primario obiettivo quello di fermare i russi; la dinamica videoludica sta soltanto in secondo piano.