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DOMENICA CULTURALE I

Autore:Pietro Rea

Data: 28/08/2025

Che spazio è quello della Domenica Culturale? È uno spazio dedicato a tutto, a cinema, arte, sport, musica, film, giochi, letteratura, teatro, e tutto ciò che può riguardare il prodotto della creatività umana. In questo spazio chiunque può parlare di un qualsiasi cosa purché sia interessante e possa arricchire tutti gli altri lettori, a partire da oggi, solo alla domenica. (Scrivendo all’Instagram del giornale Intelligere_Blog si può proporre di pubblicare un articolo, una recensione, un pensiero scritto direttamente da voi) Quest’oggi si affrontano 3 differenti proposte: - Recensione del Film “Fuori” di Mario Martone, recensito e visto da Matteo Guidi - Poesia “L’occhio parlando”, scritta da un autore contemporaneo poco noto, pubblicata da noi in esclusiva, stesa e commentata da Gabriele Duma - Presentazione e rilettura di 3 canzoni di Giorgio Gaber, a cura di Pietro Rea “Fuori” Titolo del film: Fuori Anno di pubblicazione: 2025 Regia: Mario Martone Classificazione: Drammatico Trama: Roma. Anni '80. Dopo che il capolavoro "L'arte della gioia", a cui lavora da un decennio, viene rifiutato dal mondo dell'editoria italiana, la scrittrice Goliarda Sapienza commette un furto disperato che le costa reputazione e posizione sociale. E' un film che lascia interdetti. Non capisco dove voglia andare a parare: se parli dell'amicizia in tutte le sue sfaccettature, se voglia parlare di Sapienza (di cui avevo un'immagine diversa), se si parli di vita del tempo. Mi ricorda molto quelle cene stellate dove provi molti piatti ma senza un filo preciso, per cui alla fine ti ritrovi senza ricordi netti di quello che hai assaggiato e solo col pensiero di essere stato bombardato di imput. Non è neanche quella sensazione tipica dei film contemporanei di aver messo troppa carne al fuoco; è la situazione dove ti fanno passare davanti un taglio, te lo grigliano per 2/3 minuti, per cui tu pregusti quello che guardi ma improvvisamente viene tolto e si passa ad un altro. Questo continua per molto tempo. Invece la regia è notevole, si vede bene l'impronta di Martone che almeno sulle inquadrature e sulle scelte visive sembra essere stato molto fermo. Di Matteo Guidi “L’occhio Parlando” Ammirandoti l’occhio mio dice che alcun dolore a me non tange, ma due fanno profonda cicatrice: la tua non presenza il cor infrange; e al vederti col sorriso felice, l’occhio mio trattenendosi piange lieto pe ‘l riso, e come una fenice Ché a non esser stato io, l’animo affrange Ascolto, vedo e penso le parole tue, nei miei occhi tristi nascoste che capire nu pote chi nu bole. Non riesco a non vederti nelle coste mie, e orami l’animo, e il cor, suole sorrider d’amor per le tue risposte. “Ho scritto questa poesia ripensando alla sua destinataria. Porto nella poesia dei ricordi lieti e dei ricordi tristi che descrivo con similitudini e metafore, al fine di avere una vicinanza con la donna. Questo esprime il mio affetto anche nei momenti più tristi, tanto da approfondire tutte le parole, le quali, nascoste negli occhi tristi, “non può capire chi non vuole” (“che capire nu pote chi nu bole”; dal dialetto leccese). Quando ho scritto questo sonetto ero nel mio paesino originario, nella provincia di Lecce; mi immagino tra le onde e la sabbia di essere con lei. Questi elementi naturali sembrano riprodurre il dolce suono della sua voce (“le risposte”, come scrivo), alle quali non riesco a fare altro se non “sorridere d’amor”.” di Gabriele Duma, gennaio 2025 “Un trittico di Giorgio Gaber” Tra tanti cantautori ne esistono alcuni che sembrano descrivere la vita dell’ascoltatore, o questo o quell’aspetto, con quella parola correggibile o con quell’altra assolutamente corretta, insomma l’esperienza che faccio costantemente nel mondo della musica è simile a quella nel mondo della poesia, della letteratura: riescono a parlare di qualcosa che mi riguarda senza che sappiano chi sono. Uno tra questi si chiama Giorgio Gaber: è un cantautore milanese vissuto tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. Tra i tanti capolavori di Giorgio Gaber voglio proporre questa domenica un “trittico”, una triade, un insieme di tre opere che si sviluppano a vicenda. Le opere in questione sono propriamente tre canzoni che appaiono nello stesso album del 2006, dal titolo “Con tutta la rabbia, con tutto l’amore”, e s’intitolano rispettivamente “Il grido”, “Far finta di essere sani” e “Cerco un gesto naturale”. Se dovesse mai piacervi l’articolo, e se andaste a cercare quest’album vi rendereste conto dell’ordine invertito delle canzoni: “il grido” compare in fondo, mentre invece è la prima che proporrò, l’ordine che ho scelto non è casuale, seppur non sia quello più ortodosso. Ciò detto possiamo iniziare. Il grido - “E voi così innocenti, colpevoli d’esser nati” così esordisce Gaber, esordisce una canzone che parla di una colpa, di un peso che abbiamo e che non ci siamo meritati, come possiamo chiamarlo questo peso? Lui lo chiama il grido. Ognuno di noi ha un enorme grido dentro. “È un gran vuoto che vi avvilisce e che vi blocca, come se fosse un grido in cerca di una bocca”, un grandissimo vuoto, un grandissimo grido che chiede di essere colmato, che chiede una bocca per poter risuonare. Le canzoni di Gaber, quelle un pò più profonde e strutturate, sono spesso anche delle critiche sociali: qui in particolar modo si parla dei giovani, di quei giovani che sono figli della “cultura del consumismo”. Il secondo verso recita infatti “In giro per le strade, gli sguardi vuoti, i gesti un pò sguaiati” e continua “si vede da lontano che siete privi di ideali”. Descrive la mutazione antropologica che Pasolini denuncerà fino alla sua morte: una società edonistica (se non sapete cosa significa non preoccupatevi, presto lo spiegherò in un altro articolo) e consumistica, che limita i desideri umani alla sola merce, senza però eliminare quel grido radicale e strutturale prettamente umano. Una società che non offre ideali, divinità ma tanti Idoli prodotti dal mercato. Far finta di essere sani - “Vivere, non riesco a vivere, […] nel dubbio mi compro una moto, telaio e manubrio cromato, con tanti pistoni, bottoni e accessori strani, far finta di essere sani”. “Il grido” parla di una esigenza umana strutturale e denuncia una riduzione da parte della società, Far finta di essere sani parla della relazione tra l’Io e l’Altro considerando questo grido ingente dentro di noi. Non riesco a vivere, sento il bisogno di qualcosa, sento che la mia vita deve esser parte di qualcosa di grande, MA non volendo pensarci comprerò una bellissima moto per far fuggire ogni dubbio, per colmare un vuoto attraverso una merce. Gli altri hanno dentro questo grido? Forse -denuncia Gaber- se gli altri non lo sentono è meglio far finta di non averlo, è meglio far finta di essere sani. Osservate la meravigliosa scelta di ogni singola parola: fare finta di essere sani, fare finta di non avere nessun problema. Anche perché, a pensarci bene un secondo, la sanità mentale è relativa: una persona che è affetta da una malattia mentale non è cosciente, nella maggioranza dei casi, di esserlo, è sempre un individuo esterno a rilevarlo, così la sanità di cui parla Gaber: “far finta di essere sani” equivale a dire “cercare di non farsi riconoscere da altri come anomalo”. La critica questa volta è contro il consumismo, forse più direttamente di prima, ma anche contro il comunismo: “per ora rimando il suicidio, e faccio un gruppo di studio, le masse, la lotta di classe, i testi gramsciali”. Forse il comunismo da lui citato ha un valore di sinestesia: dire un ideale per indicarli tutti quanti. Dunque il passo ulteriore è il seguente: il grido c’è, non riesco a comunicarlo, provo attraverso un ideale a dargli questa “bocca”, ma non basta ancora. Cerco un gesto naturale - “Cerco un gesto, un gesto naturale, per essere sicuro che questo corpo è mio, cerco un gesto un gesto naturale, intero come il nostro Io. Invece non so niente, sono a pezzi e non so più chi sono, capisco continuamente solo che io mi condiziono, devi essere come un Uomo, come un Santo, come un Dio, per me ci sono sempre i come e non ci sono io”. La conclusione di questo trittico è una canzone (che paradossalmente nell’album è prima delle altre due presentate) che racconta del riscontro tra questo vuoto, queste maschere Gaber le chiama (“Queste maschere ormai sono una cosa mia, che dolore che fatica buttarle via”), e i nostri comportamenti. Gaber riconosce una sorta di dualità tra ciò che noi facciamo e ciò che invece vorremmo essere. Come recita il carissimo poeta latino Ovidio: “Video meliora proboque, deteriora sequor” “Vedo e approvo, vorrei vivere, le cose buone, tuttavia seguo quelle più infelici”. Questa canzone non è una conclusione, ma è una provocazione: qual’è quel gesto, più genericamente quella cosa, che può colmare quel vuoto che ho dentro? In che bocca il mio Grido potrà ruggire? Quando potrò esserci io? Quando non sarò più frammentato? Di Pietro Rea

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