Cose nostre
Autore:Federico Scotti
Data: 28/08/2025

La scorsa estate sono stato in visita a Palermo e in alcuni luoghi della Sicilia. Durante quei giorni, ho potuto toccare con mano una città profondamente segnata dalla mafia che, tuttavia, custodisce importanti realtà cittadine che ogni giorno si ergono in difesa della giustizia.
Ho appreso due “principi”, che ho fatto miei con la sincera speranza di non scordarli mai: l’importanza di non dimenticare, di non perdere negli antri più inconsci della mia mente tutte le testimonianze di difficoltà esistenziale e di concreto donarsi per il prossimo che ho ascoltato; per secondo, l’importanza di non volgere lo sguardo dall’altra parte, di non considerarmi un osservatore esterno e passivo del male che affligge un mondo (apparentemente) così distante dal mio.
Perché se la mafia è ancora oggi un’organizzazione molto potente e ramificata in tutta la Sicilia (ma persino in tutta Italia e in diverse parti del mondo) non è solo a causa della paura che essa esercita sulle persone più deboli, ma anche per il silenzio e la scarsa attenzione da parte della Nazione. In aggiunta, negli ultimi decenni, le organizzazioni mafiose si sono evolute, hanno affinato i loro sistemi, ampliato i commerci illegali e modificato il loro modo di rapportarsi con la gente: tutto avviene molto più silenziosamente.
Dopo i primi anni Novanta, con le tragiche stragi di Capaci e via D’Amelio, la popolazione Palermitana e Italiana si mobilitò per dire no alla mafia, generando una protesta di grandezza mai vista prima che ebbe una risonanza mondiale. I boss, a causa dell’enorme attenzione mediatica di quel periodo, adottarono una strategia nuova, scegliendo in risposta, per l’appunto, il silenzio e la discrezione.
E il tempo diede loro ragione.
Con il passare dei giorni, dei mesi e poi degli anni, tutta la penisola tornò al proprio quieto vivere, finendo perconsiderare il fenomeno mafioso come un evento di secondaria importanza se non, addirittura, del passato, permettendogli così di proliferare senza ostacoli.
Per questa ragione è di fondamentale importanza ridestare un sentimento di impegno collettivo: non solo perché i Siciliani non possono farcela da soli (è importante avere in mente che l’occasione in cui la mafia ha sofferto maggiormente è stata durante le manifestazioni per la morte di Falcone e Borsellino, ovvero durante una mobilitazione nazionale), ma perché la mafia riguarda tutti; è ovunque; ed è estremamente potente.
Quest’ultima considerazionetuttavia, non giustifica l’arrendersi “perché non c’è nulla che si possa fare”. Coloro che dedicano la vita alla lotta mafiosa, nonostante fin dalla nascita sono stati circondati da un'aria malata e criminale, non hanno perso la speranza in un futuro fondato sulla giustizia, sulla bellezza e sulla legalità.
Giovanni Falcone disse: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà una fine”. Tuttavia, non bisogna illudersi che scomparirà da sola, all’improvviso, senza lasciare traccia. Perciò, come fare per concretizzare questa fine?
Per prima cosa bisogna cercare di comprendere cos’è la mafia. Quello che definisce un mafioso non sono solo le sue azioni o gli episodi di violenza per il controllo del territorio, ma anche tutto lo scheletro che sta dietro al visibile. Una struttura organizzata ben precisa, con compiti e ruoli definiti, che presuppone lealtà assoluta al proprio capo e si atteggia come uno Stato alternativo sotto cui la vita è più “vantaggiosa per il singolo”, perché ha dalla sua un enorme potere dato dal controllo del territorio e dalla coercizione di molte persone.
Con un esempio: ad una persona viene rubato il motorino.
Ha due possibilità: la prima è rivolgersi allo Stato, sporgendo una denuncia e avendo la certezza quasi assoluta che non rivedrà mai più il suo mezzo (infatti, la polizia dispone di mezzi – risorse, uomini, strumenti – insufficienti per raggiungere tale scopo, in Sicilia come nel resto dell’Italia e forse del mondo); la seconda, è denunciare la scomparsa “all’amico” del quartiere, colui che tutti conoscono e (a cui tutti possono rivolgersi in caso di bisogno). Costui nel giro di qualche giorno riuscirà a rintracciare il ladro, convincerlo a restituire il motorino al legittimo proprietario. Per tale servizio chiederà solo due cose: lealtà e gratitudine nei suoi confronti e un piccolo risarcimento di qualche decina di euro per il ladro, perché in fondo è una brava persona, ha restituito il motorino, ha dei figli, ha perso da poco il lavoro…
Altra prospettiva della vittima (quella vera): cinquanta euro da pagare al ladro sono una spesa decisamente meno onerosa rispetto a comprare un motorino nuovo.
Un mafioso è quello che accetta tutto questo, per paura, per convenienza o per ammirazione. Però lo accetta.
Dunque, la mafia è prima di tutto un problema culturale. Bisogna, innanzitutto, cambiare tale mentalità, convincere le persone che la soluzione più facile e meno problematica non sia la migliore, e che un cambiamento sia davvero possibile (parole che suonano strane scritte da uno che non hai mai vissuto in quel mondo; però ho conosciuto la testimonianza di uomini e donne che la strada dell’illegalità sono riusciti a lasciarla: anche questa è realtà).
Come fare, però? Come generare un cambiamento nel modo di pensare?
Non basta puntare a un cambiamento politico. Certamente serve un impegno da parte degli organi istituzionali per cambiare lo status quo che vige da secoli in Sicilia e diverse figure volenterose hanno contribuito grandemente alla lotta alla mafia. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio la Torre, Boris Giuliano e molti altri hanno tutti combattuto e sacrificato la propria vita per la tutela dei cittadini dai soprusi della criminalità, hanno impugnato le armi della legge e della giustizia per conseguire pene corrette ai danni degli esponenti di Cosa Nostra.
Ma, purtroppo, nonostante il loro impegno, troppo poco è cambiato. Le istituzioni statali hanno bisogno di essere affiancate da altre figure, che puntino su un rinnovamento culturale, che sappiano operare dove lo Stato, per sua natura, non arriva. Di fianco agli arresti per atti illegali qualcuno che sappia allontanare i giovani dagli ambienti criminali e prevenire la loro prigionia; di fianco alla pena qualcuno che mostri loro il perdono e uno scopo per vivere al servizio del bene per il prossimo.
Morì, il 15 settembre del 1993, giorno del suo compleanno, a Brancaccio, davanti alla porta di casa sua, don Giuseppe Puglisi, detto Pino.
Ucciso perché scomodo.
Impiegò il suo sacerdozio in uno dei quartieri più difficili di Palermo nel sostegno ai giovani. Dedicò tutto sé stesso, finanche la vita perché i bimbi, i ragazzi, le famiglie di Brancaccio avessero un futuro diverso da quello scritto al posto loro dalla mafia; per usare un’immagine bellissima di Alessandro D’Avenia ha mostrato, nell’inferno della loro esistenza, ciò che inferno non è: l’amore, l’altruismo, la gentilezza, la cura verso il prossimo e il sacrificio per gli altri.
Però, il suo segno più grande e il suo merito più straordinario è stato un sorriso. Uno sguardo rivolto al suo assassino, nell’ultimo attimo di vita, che racchiudeva l’intero senso della sua esistenza: un sorriso di amore e di perdono.
Un gesto inaspettato e rivoluzionario che ha sconvolto la vita di quell’uomo che aveva premuto il grilletto, a tal punto da generare in lui la conversione.
Don Pino, Giovanni Falcone, Giacomo Borsellino e i tanti altri hanno smosso i pilastri della mafia; hanno sognato un cambiamento di vita e di mentalità.
In parte lo hanno raggiunto.
In piccola parte, purtroppo; moltissimo è ancora da fare.
Nel ricordo della drammatica strage di Capaci, perpetrata trentatré anni fa, l’augurio di una festa della legalità speranzosa e mai stanca.